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Bianciardi e l'integrazione

Ormai è quasi un anno che ho fatto il salto inverso a quello che fanno molti: dalla metropoli alla campagna (o quasi), cambiando molto della mia vita.


A distanza di questo lasso di tempo rileggo con piacere le pagine di Luciano Bianciardi, indiscusso profeta di un'Italia grassa e sprecona, vacca a cui rimane ben poco da mungere. Lui, che ha cercato di smuovere le acque putride di una cultura già beota, clientelare e ombelicale, è finito poi in un angolo, vinto ma non sconfitto, leccandosi le ferite di una guerra impari, che non avrebbe mai potuto vincere.



Nella sua brillante opera L'integrazione, parla attraverso le vicende di un io narrante e di suo fratello, Marcello, dell'inevitabile confronto tra la vita di provincia, quella di Grosseto, e il caos inumano della città di Milano. I due, cercando fortuna, si sono trasferiti dalla campagna paludosa della Maremma alle lande di cemento della provincia lombarda, dove tutto è fermento e attività.

Mi ritrovo così a sbattere il muso sulle riflessioni che Bianciardi offriva ai suoi lettori rispetto a questo dannarsi/scannarsi per avere un posto al sole nei settori produttivi/culturali che contano, allontanandosi dai propri paesi natii, cercando un'affermazione o una stabilità economica. Erano dopotutto gli anni del boom, di quel miracolo economico che satollava tutti, rendendoci pingui e bipolari; perchè Bianciardi già notava come la schizofrenia del consumismo e del cosiddetto progresso stesse conducendoci tutti ad una nuova e aberrante dittatura: quella del soldo. Se prima erano stati i regimi totalitari ad assoggettare volontà e coscienze, ora un più subdolo nemico si era incuneato nelle nostre vite. A guardare oggi come le nuove generazioni siano disposte a tutto per il nuovo I-phone mentre il referendum sulle trivellazioni naufragava come la più malandata delle Concordie, c'è forse da andarsi a riprendere La vita agra e tutto il ciclo bianciardiano per una nuova ed attenta riflessione. E' alienante vedere quanta attualità ci sia ancora nelle sue parole a distanza di mezzo secolo dalla prima edizione de L'integrazione del 1960.


"Cosa mi credevo? Che la città fosse quel luogo di meraviglie e di godurie che credono certi, quelli che amano viaggiare? No, la grande città era proprio così, invece: un posto duro, cattivo, teso, assillato: tutta gente che corre, si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare.

- Arrivare dove? - chiesi.

- Chi lo sa? A pagare la tratta che scade, forse, a trovare i soldi per concedersi questo dubitabile vantaggio, provinciale anch'esso, di vivere nella grande città. Guardali in faccia: stirati, con gli occhi della febbre, dimentichi di tutto tranne che dei soldi che ci vogliono ogni giorno, e che servono soltanto quanto basta per stare in piedi, per lavorare, trottare ancora, e fare altri soldi. Un giro vizioso. E la tragedia sta nel fatto che di questo loro non si avvedono che si ritengono privilegiati. Ascoltali, provocali, e sentirai la sicumera di questa gente, solo perchè abita nella grande città. Questi sono i ceti medi italiani, avviliti dal padrone e insieme sollecitati a muoversi nella direzione che più fa comodo al padrone. Neanche i loro bisogni son genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina nuova, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone, e credono che questa sia la vita moderna, la felicità.

[...]

Vedi, da noi è fin troppo facile, fin troppo comodo. Il Betti, il Rosini, Aldo, Carlo, il sindaco rappresentano, per te e per me, una fetta d'Italia che sta scomparendo. E sai perchè sta scomparendo? Perchè è troppo soddisfatta della sua composta perfezione, e non riesce a trovare alcun aggancio con quest'altra Italia, balorda quanto vuoi, ma reale e crescente. Non trova un aggancio con questa e non lo trova nemmeno con l'altra Italia, quella di sotto, quella che fa la fame, che campa con centomila lire annue per famiglia, che non sa nè leggere nè scrivere. Fra queste due Italie per diverso motivo depresse, come suol dirsi oggi, la nostra Italia di mezzo non riesce a trovare la mediazione. Star lì è comodo quanto vuoi, ma non serve a nulla. Io credo che noi due siamo venuti quassù proprio per questo, per tentare la mediazione. Se tu ci sei venuto con l'idea di sistemarti nel ventre di vacca della grande città, ti sbagli di grosso e ti ripeto che sei un provinciale. Quassù noi siamo venuti allo stesso modo che se si fosse preso il treno per Matera. In una zona depressa siamo venuti, credilo pure, e ben più difficile che la Lucania: perchè là la depressione salta subito agli occhi, mentre qui si maschera da progresso, da modernità. Invece è depressione: guardali in faccia e te ne accorgi. Sta a noi batterci per il sollevamento, per il risorgimento, diciamolo pure, di questa Italia, anche di questa Italia -

- E in che modo? - chiesi.


Luciano Bianciardi, L'integrazione, 1960, Bompiani."


Già, in che modo? Fare a meno di wattpad, whatssup, facebook, i-phone e chi più ne ha più ne metta sarebbe secondo me già un grande passo. Ma quanti decidono di non stare a sentire la voce del padrone, quella che Bianciardi identificava già nel 1960?





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