Non aprire quella porta
Eppure glielo avevo detto. Non mi sembra una buona idea. Ma lei insisteva. Conviviamo, è da un pezzo che stiamo insieme. Un pezzo. Sei mesi. Sei mesi non sono un pezzo. Ma vabbè. Però glielo avevo detto. Non aprire quella maledetta porta. Eppure lo sapevo. So che lei voleva andare a fondo. Glielo leggevo negli occhi. Quando uscivo con i miei amici lei non gradiva. Gli davano noia. Io e la mia cricca. Di adepti. Devoti. Fedeli al black metal. A quel solco tracciato da Vikernes, nell’omicidio di Aarseth. A Faust e ai suoi crimini. Un altro assassinio, per giunta. A Dead, al suo cervello spappolato fotografato da Euronymous, con il rullino portato a stampare da Hellhammer. In macchina lo stereo a palla che spara A blaze in the northern sky e lo sguardo truce a trafiggere gli occhi spenti dei benpensanti. Merde. Io lo dicevo sempre, anche a lei. La gente è merde. Sì, al plurale. Nome collettivo insensato. Perché dici così, chiedeva lei. Perché la gente è fissata col bello. Non tutto è bello. Non tutto è bene. Non tutto è buono. Lei mi portava lo zuccotto fatto in casa e mi diceva: “Questo è buono?”. Io ci facevo i gargarismi e poi lo sputavo come Frost sputa il fuoco. Sì, le dicevo. Ma così mi fai Male. Io sono per il Male e il Bene mi fa Male. Non ci ho capito un cazzo, diceva lei. Fa nulla, ma se ti dico ti amo non farci caso. Lei però mi guardava con sospetto. Me e i miei compari. Fausto che chiamavamo Faust, come il batterista degli Emperor. Bruno che chiamavamo Brunum rievocando il progetto di Vikernes. Piermario che chiamavamo Nocturnal grave desecrator and black winds, come il cantante dei seminali Blasphemy. Ci raggiungeva al pub, dove mugugnavamo. La birra la ordinavamo con un latrato, detto scream. Più acuto era, più la cameriera doveva fare in fretta. Altrimenti era Male. Lei ci fissava mentre non dicevamo una parola. Poi andavamo via. Ai concerti lei stava in disparte e noi ascoltavamo assorti. Nessuno pogava. Nessuno cantava. A volte nessuno nemmeno suonava. Faust ci aveva detto la data sbagliata, in quel caso. Un giorno mi ha detto che ero strano. Io sono sempre strano. Infatti in linea di massima, mi ha detto. Anche di minima, se è questo che intendi. Tu per me non faresti niente, mi ha detto. Io per te farei tutto, le ho risposto. Ma non lo dire troppo in giro. Portami al cinema, allora, mi ha detto lei. Ora mi stai chiedendo troppo, le ho risposto io.
Lei investigava. Voleva sapere. Perché ero così. Cosa mi piaceva di quel genere maledetto. Ecco perché mi ha chiesto di venire a stare di me. Io non le ho detto di no. Solo l’ho invitata a non aprire quella maledetta porta. Lei mi ha guardato strano. So che ascolti la musica del diavolo. Quello è Elvis, l’ho corretta. Io ascolto musica satanica, è diverso. Lei lavorava, io pure. Lei faceva la programmatrice informatica, io il becchino. Che cazzo ridete? Uno deve pur campare. Un giorno che dovevo tumulare più tardi ho trovato la sua agenda in cucina. Mia madre dice che non bisogna sbirciare nelle cose delle donne. Ma io ascolto black metal e me ne sbatto. Così l’ho aperta e mi sono incazzato. Ho scoperto che mia madre ha ragione. Aveva scritto che temeva facessi sacrifici animali, forse umani. Aveva scritto che da un po’ di tempo non riusciva a guardarmi in faccia perché ci vedeva il diavolo. Aveva scritto che ultimamente simulava gli orgasmi perché stantuffavo dalle narici come un caprone. Quella sera le cucinai un pollo che le dissi di aver sgozzato io stesso, mi pettinai i baffi arricciandoli all’insù e le dissi che per il problema alle adenoidi il dottore aveva detto che ero irrimediabile: ergo, le mi narici avrebbero sbuffato così per sempre. La vidi tremare, spersa. Nonostante questo rimaneva con me. Ma guardava la porta di quella stanza. Con sempre più insistenza. Un giorno mi ha affrontato a muso duro. Cosa c’è dietro quella porta. Inventa una palla, mi sono detto. Ma che sia credibile. Babbo Natale sottovuoto, le ho risposto. Lei si è spaventata e ha chiamato il parroco al telefono. Le ho strappato la cornetta dalla mano con un morso al ricevitore. Cosa chiami il prete, le ho detto. Non ha il fisso, sai quanto costa di cellulare?
Io glielo avevo detto. Lascia stare quella maledetta stanza. Avevo chiuso la porta a doppia mandata e la chiave l’avevo messa nella cassaforte. La cassaforte era in quella stanza. Mi ero chiuso dentro. Ho ripreso la chiave, ho chiuso la cassaforte, ho aperto la stanza, sono uscito dalla stanza, ho chiuso la porta a doppia mandata e non sapevo più dove nascondere la chiave. Lei mi è comparsa davanti e mi ha detto: “Se vuoi te la conservo io”. Grazie, le ho risposto, e sono andato in bagno.
Ragazza diabolica, lei.
Tempo di uscire dal bagno e me la ritrovo davanti alla stanza, la porta aperta, le spalle vibranti. Lo sapevo che alla fine me l’avrebbe fatta sotto il naso. Ha aperto la stanza.
Sono andato a passi lenti verso di lei e le ho sussurrato all’orecchio un gelido: “Contenta?”. Davanti a lei la mia discografia completa di Tiziano Ferro. I poster. La gigantografia del Live in Pechino. I dvd celebrativi e un cartonato 2x3 rubato alle Messaggerie Musicali, a scapito di due emo sedicenni. Lei si è voltata, con gli occhi colmi di lacrime. Non pensavo fossi capace di un simile orrore, mi ha detto. Nemmeno io, le ho risposto.
Se ne è andata via così, per sempre. Io glielo avevo detto, però. Non aprire quella porta.