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Dopo S.Valentino non ci amiamo più

Ho pregato mille volte Dio di non finire, un giorno, in una situazione così. Lei, adorata metà, è qui,

davanti a me, scossa da continui dolori: il sangue spruzza ovunque, la testa mi gira, mi manca il respiro e io sono impotente, cazzo. Io sono NIENTE.

Mi sembra ieri che ce ne andavamo di casa, a festeggiare il nostro primo fine settimana fuori: lei,

appena maggiorenne, matricola alla facoltà di giurisprudenza, e io, disadattato che l’aveva conquistata recitandole Rimbaud al Leoncavallo.

I nostri amici ci indicavano un futuro comune: lontani, e il prima possibile.

Mi stringe la mano, mi guarda supplichevole… cara, se potessi fare qualcosa, secondo te, non lo

farei? Sto qui, annego nei tuoi miasmi, seguo il tuo respiro irregolare, consapevole che presto questo finirà. Finirà, amore mio.

E invece non andò cosi: lei mi convinse anche a prendere filosofia, nonostante fossi stato sempre un

reprobo dell’istruzione. Andò che ci laureammo lo stesso anno, nella stessa sessione. Era estate, l’aria profumava di buono, di certo non c’era tutto il gelo che avverto adesso, sotto le costole.

Lanci un urlo ancora più straziante di quello di prima, io mi ficco un pugno in bocca per non gridare di riflesso, cerco di mantenere la calma ma è dura, sento che sto per piangere ma non devo, hai bisogno della mia forza, ti restituisco uno sguardo che è frattaglia di commiserazione e paura.

Il precariato: chi se lo scorda. Per tre anni abbiamo fatto avanti e indietro fra aziende e uffici il cui

unico e nobile scopo era solo quello: spolparci fino al midollo illudendoci di offrirci un contratto. Ci

consolavamo la sera, nei nostri letti, fra sogni accaldati pregni di sesso e ingenuità. Fottuta, beata

ingenuità.

Gridi il mio nome, zampilli di sudore ti colano sul viso, lo detergo col panno che ho in mano, mi giro intorno e vedo solo bianco, solo bianco, solo bianco. Sento che sto per svenire.

E poi quella maledetta sera, tempo fa.

Quasi cerchi di divincolarti, ma non puoi scappare, amore.

Dopo aver bevuto un qualche bicchiere di troppo.

Sei aperta, Dio santo, quanto sei aperta.

A fare l’amore sul divano, dimentichi di tutto.

Vedo ancora più sangue di prima, ed è incredibile quanto ce ne stia in un corpo umano.

Dimentichi di ogni frustrazione, di ogni contratto fasullo, di ogni bolletta da pagare.

Sbuffi e odo un rumore in lontananza, come di un risucchio primordiale, roba da buco nero e cataclisma cosmico. Sta per finire, amore mio, presto sarà tutto un lontano ricordo.

Dimentichi anche delle precauzioni: quella sera non hai preso la pillola.

Ed eccolo qui, amore mio, finalmente, il frutto della nostra dimenticanza: il dottore finalmente ti libera l’utero dal fardello ingombrante del bimbo, che ti porge fra le mani con cura maniacale.

Io piango, o forse sorrido, e tu fai lo stesso, ignara di tutto quel sangue che hai buttato fuori.

Ora mi guardi serena, di colpo la tempesta è passata, siamo tornati alla normalità.

- William - mi dici - è bellissimo.

Lo so, amore mio, che è bellissimo.

Ma so anche che stasera dovrà esserci ancora più sangue di adesso. Perché siamo precari, parassiti, e altri parassiti non possiamo permetterceli.

Però buon San Valentino lo stesso.

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