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Sei sicuro di voler diventare uno scrittore?


Oh sì, immagino.

Ti hanno intortato a puntino, facendoti credere che scrivere sia una nobil arte compensata da vagonate di soldi, fama e celebrità. Ci hai creduto così tanto da scalzare nell’indice di gradimento dei tuoi like la fanpage di Marcel Proust a danno del tuo idolo assoluto, Carlo Cracco. Ti hanno illuso, cazzo. Svegliati. Gli scrittori non sono gente affascinante, non ci credere alle foto di Baricco che, scalzo e sorridente, ammicca verso l’obiettivo. E’ solo una posa buona per i lettori di Vanity Fair. La maggior parte degli scrittori sono solo sociopatici schizzati che hanno sprecato tutta la loro vita a pensare troppo, dimenticandosi di vivere.


E poi te, alla fine, lo sai che vuol dire scrivere? Scavare nei solchi del quotidiano spellandosi le mani, spillare sudore per una mezzora di isolamento con la pagina bianca, sacrificare il sonno alla ricerca di analessi che combattano la costante presenza di catalessi nella prosa?


Sei sicuro di non essere come Ermete Lavesto, che per la scrittura diventò pazzo?


Come? Non sai chi sia? E allora siediti, che te lo dico io.


Ermete voleva così tanto diventare uno scrittore, ma lo voleva così tanto, che si fece crescere la barba, si ingellò i capelli con la riga di lato e comprò un paio di occhiali con la montatura in crosta di rinoceronte. In molti lo riconobbero subito come un fresco intellettuale di periferia, ma a lui non bastava. Lui voleva essere uno scrittore diverso dagli altri. Lui voleva essere edito.

Chiese su Whatsapp come poteva fare e gli risposero con un fiotto sanguigno di citazioni di Alda Merini, si affidò a Facebook e gli restituirono solo selfie di individui intenti a leggersi Goethe in spiaggia, chiamò in diretta su Radio Deejay e gli risposero con pernacchie e insulti vari.

Ma non fu per questo che impazzì.


Alla fine infatti scoprì che per essere edito dovevi nascere figlio di intellettuale oppure diventare figliastro di intellettuale. In quest’ultimo caso dovevi o dare il culo (fisicamente) o dare il culo (ma non fisicamente).

Ma non fu per questo che impazzì.


Infatti Ermete decise tranquillamente di dare il culo. Fece richiesta alla Holden di Torino, dove per essere ammessi bisognava presentare un estratto di un proprio elaborato e una qualche pietanza da sbocconcellare, che Baricco c’ha sempre fame.

Ermete volle fare l’esoso e si presentò con un castagnaccio di uva passa il cui cuore, pulsante di cioccolato fondente, conteneva la sinossi del suo primo romanzo, Grappe d’amore sulla battigia, un’operetta morale sulla qualità etilica dei buoni sentimenti. Baricco, che c’ha sempre fame, a momenti ci rimaneva secco per colpa di un inciso. Lo scacciarono in malo modo, minacciandolo di farlo pubblicare con Il Foglio Letterario se si fosse fatto rivedere.

Ma non fu per questo che impazzì.


Gli consigliarono di tuffarsi di faccia nella feccia nell’umanità per intingersi di quella pellicola che aveva reso immortali penne come quelle di Ernest Hemingway, Jack Kerouac e Simonetta Agnello Hornby. Così decise di andare sulla Binaschina a parlare con le puttane, che risposero estraendo dalle tette siliconate machete con la punta arrugginita. Non si arrese e andò al Circolo dei Malfattori, dove sperò di sobillare lo stato borghese in compagnia di baffuti anarchici della ligèra milanese. Ne uscì invece con tre costole rotte e una vertebra incrinata, dopo essere stato frullato nel pogo dei Farmer’s Boulevard.

Ma non fu per questo che impazzì.


Un giorno infatti trovò Carlo Strozzi, sua nemesi dai tempi dell’asilo, che piluccava un Martini con una sua vecchia fiamma, Rosa Sciantosa. Invitato al loro tavolo, Ermete si sedette riluttante, posando tuttavia sulla superficie in marmo di Carrara la sua ultima opera, il poema in endecasillabi sciolti L’Ermete furioso. Come a dire: vada per l’apericena, ma c’ho altri cazzi per la testa. Carlo Strozzi plaudì alla sua iniziativa, cogliendolo però in fallo. Anche lui, diceva, aveva scritto qualcosa. Anche lui, diceva, era uno scrittore. Peggio: era uno scrittore edito. Aveva subaffittato la villa al mare a un clan di spacciatori colombiani per pagarsi la pubblicazione, ma era edito.


Lui. Lui che dello scrittore non aveva niente, nihil, nada. Lui che si dava solo un sacco di pose, che si era fatto crescere la barba per tirarsela da libero pensatore, che si sarebbe informato come pubblicare su internet, che avrebbe speso 10.000 euro per dare il culo alla Holden, che avrebbe persino finto di interessarsi al sociale per darsi un tono bohemien, da fino interprete dei tempi moderni. Lui, cazzo, proprio lui?

E fu così che, guardandosi allo specchio, Ermete Lavesto impazzì.


Quindi, caro il mio giovine, sei proprio sicuro che tu voglia scrivere? Se la risposta è no, come ora io credo, ecco, allora fuori dai coglioni, che qui siamo già stretti.


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